Mantra-yoga: la scienza del suono divino da gli Yogasutra di Patanjali
Mantra-shastra: shabda‑brahman, la Realtà ultima nel suo
aspetto di “suono”
Yogasutra di Patanjali - Sezione prima:
Samadhi Pada Versi: 27/28/29/35/36
27. Tasya vacakah prashiavah.
(Il
termine) che lo designa ( l'ishvara) è «O‑M».
Dopo aver
fornito nei tre sutra precedenti alcune necessarie informazioni sull’ishvara,
l’autore indica nei tre successivi un metodo preciso per stabilire un contatto
diretto con lui. Prima di occuparsi di questi tre sutra è necessario dare un
brevissimo cenno a proposito della teoria del mantra‑yoga, poiché senza
conoscere, almeno in linea generalissima, questo ramo dello yoga non sarebbe
possibile comprenderli adeguatamente.
Il mantra‑yoga è
quel ramo dello yoga che cerca di operare mutamenti nella materia e nella
conoscenza per il tramite del «suono», il termine suono essendo qui usato non
nel suo moderno senso scientifico, ma in un senso speciale che vedremo
immediatamente. Secondo la dottrina su cui si fonda il mantra‑yoga, la
manifestazione primaria della Realtà ultima ha luogo tramite una vibrazione
peculiare e sottile chiamata shabda, che significa suono ovvero parola. Il
mondo non soltanto viene creato, ma anche conservato mediante tale shabda, che
si differenzia in innumerevoli forme di vibrazione, le quali sottendono il
mondo fenomenico.
È necessario
anzitutto comprendere in qual modo tutti i fenomeni della natura possano
fondarsi in ultima analisi sulla vibrazione o su espressioni peculiari
dell’energia. In primo luogo, consideriamo il lato materiale di questi
fenomeni. La materia fisica, come la scienza ha scoperto, consiste di atomi e
molecole, che a loro volta sono il risultato di combinazioni diverse di
particelle più piccole come elettroni ecc. La scienza non è stata ancora in
grado di offrire un quadro chiaro per quanto riguarda la costituzione ultima
della materia fisica, ma è stato provato in modo inconfutabile e conclusivo che
materia ed energia sono mutuamente convertibili. La teoria della relatività ha
dimostrato che massa ed energia non sono due entità differenti, ma una sola ed
unica cosa, essendo fornita la relazione fra l’uno e l’altra dalla notissima
equazione di Einstein: E = C^2 (m’‑m)
Non soltanto la
materia è espressione dell’energia, ma la percezione dei fenomeni naturali
dipende da vibrazioni di diverse specie. Vibrazioni di vario tipo che
colpiscono gli organi di senso producono le cinque specie di sensazioni ed i
familiari mondi della luce, del suono ecc. si basano pertanto sulla vibrazione.
La psicologia moderna non è stata capace di investigare o di comprendere la
natura dei fenomeni mentali; ma lo studio di tali fenomeni mediante metodi occulti
ha mostrato in modo incontrovertibile che la loro percezione dipende da
vibrazioni in mezzi più fini di quello fisico. Esistono alcuni fenomeni noti
agli psicologi moderni, come la telepatia, che offrono sostegno a questa tesi.
Si vedrà
pertanto che non vi è nulla di assurdo in sé nella dottrina che la base di
tutto il mondo manifesto esistente su diversi livelli e consistente di innumeri
fenomeni sia un immenso complesso, un vasto aggregato di vibrazioni di diverso
tipo e grado. Tali vibrazioni o espressioni dell’energia non soltanto
costituiscono il mondo materiale e manifesto (impiegando qui il termine
«materiale» nel suo senso più lato), ma producono, attraverso le loro azioni ed
interazioni, tutti i fenomeni su tutti i diversi livelli. Tale conclusione,
sebbene sorprendente, non è nulla in confronto con la dottrina ancor più
misteriosa della scienza occulta, secondo la quale tutte queste vibrazioni
infinitamente complesse, di varietà innumerevole, sono le espressioni di
un’unica vibrazione, e quest’unica vibrazione è prodotta dalla volontà
dell’essere possente che è la deità reggitrice del particolare mondo manifesto,
sia tale mondo un sistema solare, un universo, o il cosmo. Questa vibrazione
immensa, primaria ed integrata dalla quale derivano tutte le vibrazioni
manifeste è detta shabda‑brahman, vale a dire la Realtà ultima nel suo aspetto
di “suono», il termine «suono» essendo qui impiegato in un senso estremamente
generale e piuttosto misterioso, come abbiamo accennato più sopra. Tale dottrina,
in termini semplici e generali, significa che la Realtà ultima che reca in se
stessa i samskara delle manifestazioni precedenti si differenzia,
manifestandosi, in due espressioni primarie e complementari: la prima, una
vibrazione integrata composita chiamata shabda‑brahman; l’altra, la coscienza
integrata che la sottende chiamata brahma‑caitanya (vale a dire, la realtà
sotto l’aspetto della coscienza). Queste due espressioni sono complementari e
mutuamente dipendenti, perché costituiscono le espressioni dualistiche della
Realtà unica, e appaiono e scompaiono simultaneamente.
Da questa
relazione primaria tra vibrazione e coscienza, che esiste al livello supremo
della manifestazione, scaturisce la relazione tra i due elementi su tutti i
livelli della manifestazione stessa, fino a quello fisico. Così troviamo che
ogni qual volta vi sia manifestazione di coscienza, vi è vibrazione associata
con essa, siamo o non siamo noi capaci di rintracciarla. Non soltanto
vibrazione e coscienza sono connesse in modo tanto intimo e indissolubile, ma
esiste una relazione specifica fra ciascun tipo di vibrazione e l’aspetto
particolare della coscienza al quale esso può dare espressione, così che ogni
tipo di vibrazione è «contrata», per così dire, da un corrispondente stato
della coscienza. Questa relazione può comprendersi in certa misura
considerandone l’espressione al livello più basso, precisamente quello della
percezione sensibile. Ogni vibrazione particolare della luce, dotata di una
specifica lunghezza d’onda, produce nella coscienza la sua corrispondente
percezione cromatica. Ogni particolare vibrazione sonora produce nella
coscienza la percezione della nota corrispondente. Sebbene la scienza non sia
ancora riuscita a svelare il meccanismo nascosto di altri tipi di sensazioni,
quando tali ricerche saranno state compiute con successo si scoprirà
probabilmente che ogni sensazione del gusto, dell’odorato e del tatto trova
corrispondenza in una vibrazione di qualche specie. Ciò che è vero per il
livello più basso è vero pure per tutti i livelli della manifestazione, e
pertanto non vi è nulla di intrinsecamente irragionevole nel supporre che la
coscienza possa venir influenzata o raggiunta per mezzo della vibrazione, o,
in altri termini, che stati particolari della coscienza possano venir determinati
istituendo tipi particolari di vibrazioni. Non soltanto la coscienza può
subire l’influenza della vibrazione, ma essa pure, istituendo vibrazioni
particolari, può influenzare la materia e determinare in essa mutamenti.
I vasti principi
generali che abbiamo indicato costituiscono la base del mantra‑shastra, la
scienza dell’uso dei mantra allo scopo di provocare certi risultati tangibili,
ed anche del mantra‑yoga, la scienza dell’unificazione ovvero dello sviluppo
della coscienza con l’aiuto dei mantra. L’idea essenziale che sottende l’uno e
l’altro è che, producendo un tipo particolare di vibrazione mediante un
veicolo, sia possibile catturare un tipo particolare di forza mediante il
veicolo stesso, e produrre in esso uno stato particolare di coscienza. Tali
vibrazioni possono venir prodotte per mezzo dei mantra, ciascuno dei quali
rappresenta una combinazione particolare di suoni per produrre certi risultati
specifici.
Dato che un
mantra è qualcosa di composito, è cioè una combinazione particolare di suoni
disposta in modo specifico, è interessante ricercare quali siano i suoni
fondamentali impiegati in tali combinazioni. Senza entrare nei dettagli del
problema, si può semplicemente osservare che gli elementi dai quali derivano
tutti i mantra del sanscrito sono costituiti dalle lettere dello stesso
alfabeto sanscrito. Si suppone che ogni lettera sia il veicolo di una potenza
eterna fondamentale (ecco perché viene chiamata akshara), e che, introdotta in
un mantra, contribuisca col suo influsso specifico all’effetto totale che è
l’obbiettivo appunto del mantra, in un modo assai simile a quello in cui i
vari elementi chimici offrono il contributo delle loro proprietà specifiche ai
composti che da essi sono derivati. Le lettere dell’alfabeto sanscrito sono 52,
e 52 sono perciò le potenze fondamentali elementari disponibili per produrre
qualsiasi tipo di effetto attraverso l’azione dei mantra nelle loro varie
permutazioni e combinazioni. Il che non significa, naturalmente, che
l’alfabeto sanscrito svolga un ruolo favorito nella struttura della natura e
che soltanto i suoni prodotti dalle sue lettere possano venir utilizzati per
costruire i mantra. Significa semplicemente che gli effetti dei suoni prodotti
dalle lettere dell’alfabeto sanscrito sono stati sottoposti ad indagine ed a
valutazione, e pertanto possono venir usati nella costruzione dei mantra. Fatta
questa breve introduzione, consideriamo ora l’importante sutra dei quale
dobbiamo trattare.
In I,26 abbiamo
osservato che l’ishvara è il vero Docente di tutti, fonte di quella luce
interiore con l’aiuto della quale lo yogi imbocca il sentiero della
liberazione. Come verrà rivelata quella luce interna; come verrà scoperta,
così che lo yogi possieda in se stesso una guida sicura e continua? Questa luce
compare quando la mente è sufficientemente purificata attraverso la pratica
dello yoga, come indicato in II,28. Ma esistono ancora difficoltà iniziali, che
vanno superate prima che l’esercizio dello yoga possa cominciare seriamente.
Tali difficoltà sono connesse alla condizione generale della mente che, nel
caso della massima parte dei neofiti, non è affatto favorevole all’esercizio
dello yoga. Essa è soggetta a distrazioni continue e talvolta violente, che
rendono impossibile al neofita adottare una vita di disciplina e ritrarsi
entro i recessi della propria coscienza. Come dovranno superarsi le
distrazioni, come si rafforzerà la mente in modo che al neofita sia possibile
fondarsi saldamente nel sentiero dello yoga? Il prossimo sutra e quelli
successivi si occupano di questo importante problema.
Il primo mezzo,
estremamente efficace, che Patanjali ha prescritto per superare lo stato di
distrazione mentale è il japa del pranava, nonché la meditazione sul suo significato.
Dice che il pranava è il vacaka dell’ishvara. Che cos’è un vacaka? Il
significato letterale del termine è quello di nome o denotatore, ma nel mantra‑yoga
esso possiede un valore speciale e viene usato per indicare un nome che
appartenga essenzialmente alla natura di un mantra ed abbia il potere, se
usato al modo prescritto, di rivelare la coscienza e di scatenare la potenza
di un devata, o essere divino. Essendo una combinazione di suoni impiegati per
designare un’entità particolare, somiglia ad un nome. Ma un nome ordinario
viene scelto arbitrariamente per indicare qualcuno, e non ha, con la persona
denominata, alcuna relazione naturale o mistica. Un vacaka, d’altro lato, è un
nome che possiede invece una relazione mistica col vacya (l’entità designata),
e reca inerente in sé il potere di rivelare la coscienza e di scatenare le
capacità dell’individuo che rappresenta. Un vacaka di questo tipo è Om. Esso è
considerato dagli indù il mantra più mistico, sacro e potente, perché è il
vacaka di ishvara, la massima Potenza e suprema Coscienza per quanto riguarda
il nostro sistema solare.
L’uomo comune,
che non abbia familiarità con il lato interiore della vita, può ritenere
assurdo e contrario al buon senso che una semplice sillaba di tre lettere possa
recare in sé potenzialmente la capacità che le viene attribuita da tutti gli
yogi, ed alla quale si trovano riferimenti sparsi in tutte le sacre scritture
induiste. Ma i fatti sono i fatti, e non si lasciano minimamente scuotere
dall’ignoranza o dai pregiudizi di persone incredule. Chi avrebbe potuto
credere cinquant’anni fa che un mero neutrone, muovendosi fra un certo numero
di atomi di uranio, potesse produrre un’esplosione abbastanza potente da
distruggere un’intera città? Chiunque comprende la teoria del mantra‑yoga e la
relazione della vibrazione con la coscienza dovrebbe essere in grado di vedere
che non vi è nulla di intrinsecamente impossibile nell’idea che una sillaba
mistica possieda tale potere. Inoltre, dobbiamo ricordare che i fatti della
vita intima dei quali lo yoga tratta si fondano sull’esperienza non meno dei
fatti scientifici, sebbene possa non essere possibile né auspicabile
dimostrarli.
28. Tajjapas tad‑artha‑bhavanam.
La sua ripetizione costante e la meditazione sul suo
significato.
Come può
svilupparsi il potere di un mantra come il pranava? Poiché dovremmo sempre
rammentare che si tratta di un’energia potenziale, non attiva. È il potere di
un seme, che deve svilupparsi gradualmente, purché incontri certe condizioni
essenziali; non è l’energia di un motore elettrico, che è disponibile
semplicemente premendo un bottone. È questo un fatto che molte persone perdono
frequentemente di vista. Esse pensano che semplicemente ripetendo un mantra
alcune volte, potranno ottenere il risultato desiderato. Non è così. Un mantra
non può dare in questo modo il risultato per il quale è stato concepito, più di
quanto un seme di mango possa soddisfare un uomo affamato. Il seme va piantato,
innaffiato, la tenera pianticella va curata per anni prima che possa portare
frutto e placare la fame. Allo stesso modo l’energia potenziale risiedente in
un mantra va sviluppata lentamente mediante l’applicazione dei retti metodi
prima che si renda disponibile per il progresso spirituale del sadhaka. Il
processo occupa generalmente anni di disciplina e di esercizio estremamente
faticosi e rigidi, ed anche allora il sadhaka può non avere affatto successo se
non ha pensato a trovarsi nelle rette condizioni. Quanto più alto è l’oggetto
di un mantra, tanto più difficile e lungo è il processo di trarre in luce
l’energia in esso latente.
I due mezzi
principali per sviluppare l’energia latente nel pranava, ugualmente applicabili
ad altri mantra consimili, vengono forniti nel sutra che stiamo qui
considerando. Il primo mezzo è il japa. Si tratta di una ben nota tecnica del
mantra‑yoga, nel quale il mantra viene ripetuto ininterrottamente (in un primo
tempo in modo udibile, poi silenziosamente ed infine mentalmente) secondo
certe modalità prescritte, finché non comincia ad apparire il risultato
desiderato. La ripetizione del mantra è necessaria, e talvolta si esige dal
sadhaka che lo ripeta un numero talmente enorme di volte, da farlo diventare
una prova di pazienza e di tenacia. Ma sebbene generalmente tale numero sia
grande, non è il numero in se stesso che costituisce il fattore essenziale.
Uguale importanza rivestono le altre condizioni, meritali ed emotive. Il japa comincia
come ripetizione meccanica, ma gradualmente dovrebbe trasformarsi in una forma
di meditazione e di sviluppo degli strati più profondi della coscienza.
L’efficacia del
japa si fonda sul fatto che ogni jivatma è un microcosmo e reca pertanto in sé
le potenzialità di evolvere tutti gli stati della coscienza e tutte le energie
presenti in forma attiva nel macrocosmo. Vanno applicate tutte quelle forze che
possono aiutare la scintilla divina entro ciascun cuore umano a tramutarsi in
un fuoco ruggente. E lo sviluppo della coscienza ha luogo come risultato
dell’azione combinata di tutte queste forze, più che della mera ripetizione
del mantra. Tuttavia, dev’esservi il mantra per integrare e polarizzare quelle
forze, come deve esistere il piccolissimo seme per utilizzare il suolo,
l’acqua, l’aria e la luce solare nello sviluppo dell’albero. Non è possibile
trattare qui il modo di operare del japa, e la maniera secondo la quale esso
risveglia le potenzialità del microcosmico jivatma. Potremo semplicemente
notare che la sua efficacia dipende dalla sua capacità di suscitare sottili
vibrazioni entro i veicoli che influenza. Un mantra è una combinazione di
suoni, e pertanto rappresenta una vibrazione fisica percettibile all’orecchio
fisico. Ma questa vibrazione fisica ne è l’espressione esterna, e dietro la
vibrazione fisica, collegate con essa, esistono vibrazioni più fini, in modo
assai simile a quello in cui il denso corpo fisico dell’uomo è la sua
manifestazione esterna, connessa con i suoi veicoli più sottili. Questi vari
aspetti del vak, o «discorso» vengono definiti vaikhari madhyama, pashyanti e
para. Vaikhari è il suono udibile che può far passare attraverso gli stadi
intermedi fino alla forma più sottile del para vak. Proprio attraverso l’azione
di queste forme più sottili del «suono» si verifica lo sviluppo della
coscienza, e le potenzialità nascoste divengono poteri attivi. Questo
scatenamento delle energie assume un andamento preciso secondo la natura
specifica del mantra, esattamente come un seme cresce fino a diventare un
albero, ma si trasforma appunto in un tipo particolare di albero, secondo la
natura del seme.
L’altro mezzo
per utilizzare l’energia latente nel pranava è la bhavana. Il termine significa
letteralmente «abitare nella mente». Tentiamo di comprenderne il significato
nel contesto attuale. L’oggetto della doppia pratica prescritta in questo
sutra è di mettersi in contatto con la divina coscienza dell’ishvara. Il japa
ha l’effetto di armonizzare i veicoli. Ma è necessario qualche cosa di più per
portare quaggiù l’influenza divina e stabilire il contatto con la coscienza
divina. Se una corrente elettrica deve passare attraverso una macchina, non
occorre soltanto conduttività o capacità di trasmettere la corrente, ma anche
voltaggio, cioè la pressione che fa scorrere la corrente. Allo stesso modo,
per rendere possibile alla coscienza individuale di accostarsi alla coscienza
divina, non soltanto occorre l’accordo tra i veicoli, ma anche una forza
attivante, un’attrazione che corrisponde al voltaggio nel passaggio della
corrente elettrica. Tale forza, che stringe insieme i due ‑ il jivatma e il
paramatma ‑ può assumere forme diverse. Per esempio, nel bhakti‑yoga, essa
assume la forma della devozione intensa o dell’amore. Nel mantra‑yoga, assume
la forma di bhavana, ovvero intensa meditazione sul significato del mantra, e
sull’oggetto che si cerca di attingere. Tale bhavana non è un processo
meramente intellettuale come quello che impieghiamo nel trovare la soluzione di
un problema matematico. È un’azione congiunta di tutte le nostre facoltà nel
perseguimento di una meta comune. Così, non è qui soltanto presente lo spirito
della ricerca intellettuale, ma anche l’anelito profondo dell’amante che
desidera trovare l’amato, e la volontà dell’hatha‑yogi che intende rompere
tutte le barriere che lo separano dall’oggetto della sua ricerca. Questo tipo
di bhavana polarizza tutte le nostre energie e facoltà, e determina la
necessaria concentrazione finalistica. Così, gradualmente, le distrazioni che
allontanano la mente dell’allievo dall’oggetto della sua ricerca vengono
rimosse, ed egli si trova in grado di volgere all’interno la propria
attenzione.
29. Tatah pratyak‑cetanadhigamo
‘pyantaraya‑bhavash ca.
Da ciò (derivano) la scomparsa degli ostacoli e il volgersi
della coscienza verso l’interno.
In questo sutra
Patanjali ha presentato i due risultati che derivano dalla pratica prescritta
nel sutra precedente. Anzitutto, il risveglio di un nuovo tipo di coscienza
definito pratyak cetana, e in secondo luogo la scomparsa graduale degli
«ostacoli».
Cerchiamo
anzitutto di comprendere che cosa si intenda per pratyak cetana. Vi sono due
tipi di coscienza di natura diametralmente opposta, pratyak e paranga: cioè,
coscienza volta verso l’interno e coscienza volta verso l’esterno. Se studiamo
la mente dell’individuo comune scopriremo che essa è rivolta interamente verso
l’esterno. È sommersa nel mondo esteriore e si occupa ininterrottamente della
processione di immagini che passano senza tregua nel campo della coscienza.
Questa coscienza volta verso l’esterno è causata dal vikshepa, la proiezione
esteriore da parte della mente inferiore di quanto è presente dentro di essa,
al centro. Poiché ci occuperemo a fondo del problema del vikshepa trattando
del sutra successivo, tralasciamo qui questo argomento e cerchiamo di intendere
che cosa sia la pratyak cetana. Come abbiamo sottolineato più sopra, la pratyak
cetana è la coscienza volta verso l’interno; ovvero la coscienza che si dirige
verso il suo centro. Essa è pertanto l’opposto esatto della coscienza volta
verso l’esterno, o paranga cetana.
Tutto lo scopo
ed il processo dello yoga consistono nel ritrarre la coscienza dall’esterno
verso l’interno, poiché il mistero ultimo della vita è celato nel cuore stesso,
o nel centro, del nostro essere, e potremo trovarlo soltanto là e in nessun
altro luogo. Nel caso dello yogi la tendenza della mente esteriore a
precipitare verso l’esterno ed a occuparsi degli oggetti del mondo esteriore va
pertanto sostituita gradualmente da una tendenza a ritornare automaticamente
alla propria condizione «centralizzata», senza sforzo. Soltanto in queste
condizioni essa potrà «congiungersi», per così dire, con i principi supremi.
Ma si può osservare che questa sola tendenza di volgersi verso il centro non è
la pratyak cetana, sebbene costituisca uno stadio necessario per conseguirla.
L’essenza della pratyak cetana è il contatto concreto con i principi superiori
che nascono dall’irradiazione della personalità in seguito all’influenza di
tali stessi principi (atma‑buddhi‑mana). Senza dubbio il contatto è indiretto,
ma possiede sufficiente efficacia e realtà per mettere in grado la personalità
di trarne numerosi vantaggi. La forza dell’atman, l’illuminazione della buddhi
e la conoscenza della mente superiore filtrano entro la personalità in misura
gradualmente crescente, e le offrono la guida e l’impulso necessari a seguire
il sentiero dello yoga. Il contatto diviene diretto soltanto nel samadhi,
quando la coscienza abbandona un veicolo dopo l’altro e si incentra in livelli
sempre più profondi.
L’altro risultato
del japa e della meditazione sul pranava è la scomparsa graduale degli
ostacoli che si incontrano sul sentiero dello yogi. Tali ostacoli sono di
diverse specie: impurità e disarmonie nei veicoli, debolezza di carattere,
mancanza di sviluppo, e così via. Ma il pranava, come abbiamo visto, tocca il
cuore stesso del nostro essere, risveglia nel microcosmo vibrazioni che possono
trarre in luce tutte le potenzialità e le facoltà latenti che giacciono sopite
in esso. Così tutti gli ostacoli, di qualsiasi natura, cedono a questa
stimolazione dinamica. Le deficienze vengono sostituite dalla crescita di
facoltà corrispondenti o dall’afflusso di potenza ulteriore. Le impurità sono
rimosse. Le disarmonie tra i veicoli si stemperano, ed i veicoli si
armonizzano l’uno con l’altro e con la suprema coscienza dell’ishvara. Ha luogo
così una rigenerazione completa dell’individualità, una rigenerazione che la
rende adatta a seguire il sentiero dell’ashtanga yoga o ishvara‑pranidhana.
È ovvio che uno
strumento dall’azione tanto efficace e potente non può venir impiegato in modo
casuale e disattento senza invischiare il sadhaka in ogni sorta di difficoltà e
di pericoli. È pertanto assolutamente necessario considerare con estrema
attenzione le condizioni necessarie e la loro stretta regolazione. Non è
questo il luogo per definire in dettaglio tali condizioni. Basta osservare che
tra le più essenziali sono la purezza, l’auto‑controllo, ed un uso estremamente
cauto e graduale della potenza. Si potrà pertanto intraprendere utilmente e
sicuramente l’esercizio soltanto dopo aver padroneggiato in misura
considerevole lo yama e il niyama.
I sette sutra da
I,23 a I,29 formano, in una certa misura, una serie distinta che presenta la
tecnica del sentiero mistico sul quale l’allievo procede direttamente verso la
meta, senza studiare e padroneggiare i piani intermedi che lo separano
dall’oggetto della sua ricerca. Su questo sentiero la rinuncia a se stessi è
l’unica arma, adottando la quale il japa e la meditazione sul pranava costituiscono
l’unica tecnica da impiegare. Il japa e la meditazione volgono la coscienza
dell’allievo direttamente verso la sua meta, rimuovono tutti gli ostacoli, e la
rinuncia a se stessi fa il resto.
Laya‑yoga o nada-yoga
35. Vishayavati va pravrttir utpanna
manasah sthitinibandhani.
Anche l’entrata in attività dei sensi (superiori) è utile
per determinare la stabilità della mente.
Un ulteriore
mezzo che Patanjali indica per rendere stabile la mente è l’assorbirsi di essa
in una qualche cognizione sensibile superfisica. Tale cognizione può venir
determinata in un certo numero di modi; ad esempio, concentrando la mente su
certi centri vitali del corpo. Esempio tipico di questo metodo è il laya‑yoga,
nel quale la mente si concentra sui nada, ovvero suoni supernormali, che
possono venir uditi in certi punti situati nel corpo. In realtà, questo metodo
di condurre la mente alla quiete è considerato tanto efficace che è sorto un
ramo distinto dello yoga, fondato su questo principio.
Non è facile
dire quanto lontano quest’unificazione della mente con i nada, che costituisce
la base del laya‑yoga, possa condurre il sadhaka nella sua ricerca della
Realtà. Dato che questo metodo costituisce la base di un ramo dello yoga
separato e indipendente, è possibile che alcuni yogi siano stati capaci di
compiere notevoli progressi nella propria ricerca in base ad esso. Ma è molto
probabile che, come numerosi altri sistemi minori dello yoga, presto o tardi il
laya‑yoga si fonda con il raja-yoga, e che sia utile unicamente nella fase
preliminare consistente nel rendere stabile e tranquilla la mente e nel
fornire alla sadhaka un’esperienza diretta di certi fenomeni sopranormali. In
ogni modo, l’utilità di questo metodo per il temperamento del vikshepa e per la
preparazione della mente alle fasi più avanzate della pratica yoga è fuori
discussione.
36. Vishoka va jyotishmati.
Nonché (mediante) (stati interiormente
sperimentati come) sereni o luminosi.
Nel laya‑yoga la
mente viene resa stabile assorbendola nell’anahata shabda. Si può raggiungere
lo stesso obbiettivo ponendo la mente in contatto con altre sensazioni o stati
di coscienza sopranormali. La costituzione dell’uomo, comprendendo tanto il
corpo fisico che quello superfisico, è estremamente complessa, ed esistono
numerosissimi metodi per ottenere un contatto parziale tra il veicolo inferiore
e quelli superiori. Alcuni fra tali metodi dipendono da ausilii puramente
artificiali; altri dal japa di un mantra, ed altri ancora da un certo speciale
tipo di meditazione. Quale tra tali metodi verrà adottato da un sadhaka
dipenderà dai samskara che egli reca con sé dalle esistenze precedenti, nonché
dalla capacità e dal temperamento del maestro che lo inizia a tali pratiche preliminari.
Come risultato di tali esercizi il sadhaka potrà cominciare o a scorgere dentro
di sé una luce sconosciuta, o a percepire un senso profondo di pace e di
tranquillità. Esperienze che, sebbene in se stesse non possiedano grande
significato, possono catturare la mente con il loro potere di attrazione e
gradualmente determinare la condizione di stabilità che si ricercava.
Tuttavia il
sadhaka deve tener presente lo scopo di tali esercizi. In primo luogo, non
dovrà conferir loro importanza e significato indebiti, né immaginare di star
compiendo grandi progressi sul sentiero dello yoga. Sta semplicemente
apprendendo l’abc della scienza yoga. In secondo luogo, non dovrà permettere
che tali esperienze divengano una pura fonte di soddisfazione emotiva e
mentale. Molte persone cominciano ad usare tali pratiche come un narcotico,
una via di evasione dallo sforzo e dalla tensione della vita quotidiana. Se si
adottano atteggiamenti errati come questi, tali esercizi divengono spesso un
impedimento, anziché un ausilio nel sentiero percorso dal sadhaka.