martedì 18 febbraio 2014

Mantra-yoga: la scienza del suono divino dagli Yogasutra di Patanjali




Mantra-yoga: la scienza del suono divino da gli Yogasutra di Patanjali
Mantra-shastra: shabda‑brahman, la Realtà ultima nel suo aspetto di “suono”

Yogasutra di Patanjali - Sezione prima: Samadhi Pada Versi: 27/28/29/35/36


27. Tasya vacakah prashiavah.
(Il termine) che lo designa ( l'ishvara) è «O‑M».

Dopo aver fornito nei tre sutra precedenti alcune necessarie infor­mazioni sull’ishvara, l’autore indica nei tre successivi un metodo preciso per stabilire un contatto diretto con lui. Prima di occuparsi di questi tre sutra è necessario dare un brevissimo cenno a proposito della teoria del mantra‑yoga, poiché senza conoscere, almeno in linea generalissima, questo ramo dello yoga non sarebbe possibile comprenderli adegua­tamente.
Il mantra‑yoga è quel ramo dello yoga che cerca di operare muta­menti nella materia e nella conoscenza per il tramite del «suono», il ter­mine suono essendo qui usato non nel suo moderno senso scientifico, ma in un senso speciale che vedremo immediatamente. Secondo la dot­trina su cui si fonda il mantra‑yoga, la manifestazione primaria della Realtà ultima ha luogo tramite una vibrazione peculiare e sottile chia­mata shabda, che significa suono ovvero parola. Il mondo non soltanto viene creato, ma anche conservato mediante tale shabda, che si differenzia in innumerevoli forme di vibrazione, le quali sottendono il mondo fenomenico.
È necessario anzitutto comprendere in qual modo tutti i fenomeni della natura possano fondarsi in ultima analisi sulla vibrazione o su espressioni peculiari dell’energia. In primo luogo, consideriamo il lato materiale di questi fenomeni. La materia fisica, come la scienza ha sco­perto, consiste di atomi e molecole, che a loro volta sono il risultato di combinazioni diverse di particelle più piccole come elettroni ecc. La scienza non è stata ancora in grado di offrire un quadro chiaro per quanto riguarda la costituzione ultima della materia fisica, ma è stato provato in modo inconfutabile e conclusivo che materia ed energia sono mutuamente convertibili. La teoria della relatività ha dimostrato che massa ed energia non sono due entità differenti, ma una sola ed unica cosa, essendo fornita la relazione fra l’uno e l’altra dalla notissima equazione di Einstein: E = C^2 (m’‑m)
Non soltanto la materia è espressione dell’energia, ma la percezione dei fenomeni naturali dipende da vibrazioni di diverse specie. Vibrazioni di vario tipo che colpiscono gli organi di senso producono le cin­que specie di sensazioni ed i familiari mondi della luce, del suono ecc. si basano pertanto sulla vibrazione. La psicologia moderna non è stata capace di investigare o di comprendere la natura dei fenomeni mentali; ma lo studio di tali fenomeni mediante metodi occulti ha mostrato in modo incontrovertibile che la loro percezione dipende da vibrazioni in mezzi più fini di quello fisico. Esistono alcuni fenomeni noti agli psi­cologi moderni, come la telepatia, che offrono sostegno a questa tesi.
Si vedrà pertanto che non vi è nulla di assurdo in sé nella dottrina che la base di tutto il mondo manifesto esistente su diversi livelli e consistente di innumeri fenomeni sia un immenso complesso, un vasto aggregato di vibrazioni di diverso tipo e grado. Tali vibrazioni o espres­sioni dell’energia non soltanto costituiscono il mondo materiale e ma­nifesto (impiegando qui il termine «materiale» nel suo senso più lato), ma producono, attraverso le loro azioni ed interazioni, tutti i fenomeni su tutti i diversi livelli. Tale conclusione, sebbene sorprendente, non è nulla in confronto con la dottrina ancor più misteriosa della scienza occulta, secondo la quale tutte queste vibrazioni infinitamente complesse, di varietà innumerevole, sono le espressioni di un’unica vibrazione, e quest’unica vibrazione è prodotta dalla volontà dell’essere possente che è la deità reggitrice del particolare mondo manifesto, sia tale mondo un sistema solare, un universo, o il cosmo. Questa vibrazione immensa, primaria ed integrata dalla quale derivano tutte le vibrazioni manifeste è detta shabda‑brahman, vale a dire la Realtà ultima nel suo aspetto di “suono», il termine «suono» essendo qui impiegato in un senso estrema­mente generale e piuttosto misterioso, come abbiamo accennato più sopra. Tale dottrina, in termini semplici e generali, significa che la Real­tà ultima che reca in se stessa i samskara delle manifestazioni precedenti si differenzia, manifestandosi, in due espressioni primarie e complemen­tari: la prima, una vibrazione integrata composita chiamata shabda‑brah­man; l’altra, la coscienza integrata che la sottende chiamata brahma‑cai­tanya (vale a dire, la realtà sotto l’aspetto della coscienza). Queste due espressioni sono complementari e mutuamente dipendenti, perché co­stituiscono le espressioni dualistiche della Realtà unica, e appaiono e scompaiono simultaneamente.
Da questa relazione primaria tra vibrazione e coscienza, che esiste al livello supremo della manifestazione, scaturisce la relazione tra i due elementi su tutti i livelli della manifestazione stessa, fino a quello fisico. Così troviamo che ogni qual volta vi sia manifestazione di coscienza, vi è vibrazione associata con essa, siamo o non siamo noi capaci di rin­tracciarla. Non soltanto vibrazione e coscienza sono connesse in modo tanto intimo e indissolubile, ma esiste una relazione specifica fra ciascun tipo di vibrazione e l’aspetto particolare della coscienza al quale esso può dare espressione, così che ogni tipo di vibrazione è «contrata», per così dire, da un corrispondente stato della coscienza. Questa relazio­ne può comprendersi in certa misura considerandone l’espressione al li­vello più basso, precisamente quello della percezione sensibile. Ogni vibrazione particolare della luce, dotata di una specifica lunghezza d’onda, produce nella coscienza la sua corrispondente percezione cromatica. Ogni particolare vibrazione sonora produce nella coscienza la percezione del­la nota corrispondente. Sebbene la scienza non sia ancora riuscita a sve­lare il meccanismo nascosto di altri tipi di sensazioni, quando tali ri­cerche saranno state compiute con successo si scoprirà probabilmente che ogni sensazione del gusto, dell’odorato e del tatto trova corrispondenza in una vibrazione di qualche specie. Ciò che è vero per il livello più bas­so è vero pure per tutti i livelli della manifestazione, e pertanto non vi è nulla di intrinsecamente irragionevole nel supporre che la coscien­za possa venir influenzata o raggiunta per mezzo della vibrazione, o, in altri termini, che stati particolari della coscienza possano venir de­terminati istituendo tipi particolari di vibrazioni. Non soltanto la co­scienza può subire l’influenza della vibrazione, ma essa pure, istituendo vibrazioni particolari, può influenzare la materia e determinare in essa mutamenti.
I vasti principi generali che abbiamo indicato costituiscono la base del mantra‑shastra, la scienza dell’uso dei mantra allo scopo di provocare certi risultati tangibili, ed anche del mantra‑yoga, la scienza dell’unifi­cazione ovvero dello sviluppo della coscienza con l’aiuto dei mantra. L’idea essenziale che sottende l’uno e l’altro è che, producendo un tipo particolare di vibrazione mediante un veicolo, sia possibile catturare un tipo particolare di forza mediante il veicolo stesso, e produrre in esso uno stato particolare di coscienza. Tali vibrazioni possono venir prodot­te per mezzo dei mantra, ciascuno dei quali rappresenta una combinazio­ne particolare di suoni per produrre certi risultati specifici.
Dato che un mantra è qualcosa di composito, è cioè una combina­zione particolare di suoni disposta in modo specifico, è interessante ri­cercare quali siano i suoni fondamentali impiegati in tali combinazioni. Senza entrare nei dettagli del problema, si può semplicemente osserva­re che gli elementi dai quali derivano tutti i mantra del sanscrito sono costituiti dalle lettere dello stesso alfabeto sanscrito. Si suppone che ogni lettera sia il veicolo di una potenza eterna fondamentale (ecco perché viene chiamata akshara), e che, introdotta in un mantra, contri­buisca col suo influsso specifico all’effetto totale che è l’obbiettivo ap­punto del mantra, in un modo assai simile a quello in cui i vari ele­menti chimici offrono il contributo delle loro proprietà specifiche ai composti che da essi sono derivati. Le lettere dell’alfabeto sanscrito sono 52, e 52 sono perciò le potenze fondamentali elementari disponi­bili per produrre qualsiasi tipo di effetto attraverso l’azione dei mantra nelle loro varie permutazioni e combinazioni. Il che non significa, na­turalmente, che l’alfabeto sanscrito svolga un ruolo favorito nella strut­tura della natura e che soltanto i suoni prodotti dalle sue lettere possano venir utilizzati per costruire i mantra. Significa semplicemente che gli effetti dei suoni prodotti dalle lettere dell’alfabeto sanscrito sono stati sottoposti ad indagine ed a valutazione, e pertanto possono venir usati nella costruzione dei mantra. Fatta questa breve introduzione, conside­riamo ora l’importante sutra dei quale dobbiamo trattare.
In I,26 abbiamo osservato che l’ishvara è il vero Docente di tutti, fon­te di quella luce interiore con l’aiuto della quale lo yogi imbocca il sentiero della liberazione. Come verrà rivelata quella luce interna; co­me verrà scoperta, così che lo yogi possieda in se stesso una guida sicura e continua? Questa luce compare quando la mente è sufficientemente purificata attraverso la pratica dello yoga, come indicato in II,28. Ma esistono ancora difficoltà iniziali, che vanno superate prima che l’eser­cizio dello yoga possa cominciare seriamente. Tali difficoltà sono connes­se alla condizione generale della mente che, nel caso della massima par­te dei neofiti, non è affatto favorevole all’esercizio dello yoga. Essa è soggetta a distrazioni continue e talvolta violente, che rendono impossi­bile al neofita adottare una vita di disciplina e ritrarsi entro i recessi della propria coscienza. Come dovranno superarsi le distrazioni, come si rafforzerà la mente in modo che al neofita sia possibile fondarsi sal­damente nel sentiero dello yoga? Il prossimo sutra e quelli successivi si occupano di questo importante problema.
Il primo mezzo, estremamente efficace, che Patanjali ha prescritto per superare lo stato di distrazione mentale è il japa del pranava, nonché la meditazione sul suo significato. Dice che il pranava è il vacaka del­l’ishvara. Che cos’è un vacaka? Il significato letterale del termine è quel­lo di nome o denotatore, ma nel mantra‑yoga esso possiede un valore speciale e viene usato per indicare un nome che appartenga essenzialmen­te alla natura di un mantra ed abbia il potere, se usato al modo pre­scritto, di rivelare la coscienza e di scatenare la potenza di un devata, o essere divino. Essendo una combinazione di suoni impiegati per desi­gnare un’entità particolare, somiglia ad un nome. Ma un nome ordinario viene scelto arbitrariamente per indicare qualcuno, e non ha, con la persona denominata, alcuna relazione naturale o mistica. Un vacaka, d’altro lato, è un nome che possiede invece una relazione mistica col vacya (l’entità designata), e reca inerente in sé il potere di rivelare la coscienza e di scatenare le capacità dell’individuo che rappresenta. Un vacaka di questo tipo è Om. Esso è considerato dagli indù il mantra più mistico, sacro e potente, perché è il vacaka di ishvara, la massima Po­tenza e suprema Coscienza per quanto riguarda il nostro sistema solare.
L’uomo comune, che non abbia familiarità con il lato interiore della vita, può ritenere assurdo e contrario al buon senso che una semplice sillaba di tre lettere possa recare in sé potenzialmente la capacità che le viene attribuita da tutti gli yogi, ed alla quale si trovano riferimenti sparsi in tutte le sacre scritture induiste. Ma i fatti sono i fatti, e non si lasciano minimamente scuotere dall’ignoranza o dai pregiudizi di per­sone incredule. Chi avrebbe potuto credere cinquant’anni fa che un mero neutrone, muovendosi fra un certo numero di atomi di uranio, potesse produrre un’esplosione abbastanza potente da distruggere un’intera città? Chiunque comprende la teoria del mantra‑yoga e la relazione della vibrazione con la coscienza dovrebbe essere in grado di vedere che non vi è nulla di intrinsecamente impossibile nell’idea che una sillaba mistica possieda tale potere. Inoltre, dobbiamo ricordare che i fatti della vita intima dei quali lo yoga tratta si fondano sull’espe­rienza non meno dei fatti scientifici, sebbene possa non essere possibile né auspicabile dimostrarli.

28. Tajjapas tad‑artha‑bhavanam.
La sua ripetizione costante e la meditazione sul suo significato.

Come può svilupparsi il potere di un mantra come il pranava? Poi­ché dovremmo sempre rammentare che si tratta di un’energia potenziale, non attiva. È il potere di un seme, che deve svilupparsi gradualmente, purché incontri certe condizioni essenziali; non è l’energia di un motore elettrico, che è disponibile semplicemente premendo un bottone. È que­sto un fatto che molte persone perdono frequentemente di vista. Esse pensano che semplicemente ripetendo un mantra alcune volte, potranno ottenere il risultato desiderato. Non è così. Un mantra non può dare in questo modo il risultato per il quale è stato concepito, più di quanto un seme di mango possa soddisfare un uomo affamato. Il seme va pian­tato, innaffiato, la tenera pianticella va curata per anni prima che possa portare frutto e placare la fame. Allo stesso modo l’energia potenziale risiedente in un mantra va sviluppata lentamente mediante l’applica­zione dei retti metodi prima che si renda disponibile per il progresso spirituale del sadhaka. Il processo occupa generalmente anni di discipli­na e di esercizio estremamente faticosi e rigidi, ed anche allora il sadhaka può non avere affatto successo se non ha pensato a trovarsi nelle rette condizioni. Quanto più alto è l’oggetto di un mantra, tanto più difficile e lungo è il processo di trarre in luce l’energia in esso latente.
I due mezzi principali per sviluppare l’energia latente nel pranava, ugualmente applicabili ad altri mantra consimili, vengono forniti nel sutra che stiamo qui considerando. Il primo mezzo è il japa. Si tratta di una ben nota tecnica del mantra‑yoga, nel quale il mantra viene ri­petuto ininterrottamente (in un primo tempo in modo udibile, poi si­lenziosamente ed infine mentalmente) secondo certe modalità prescritte, finché non comincia ad apparire il risultato desiderato. La ripetizione del mantra è necessaria, e talvolta si esige dal sadhaka che lo ripeta un numero talmente enorme di volte, da farlo diventare una prova di pa­zienza e di tenacia. Ma sebbene generalmente tale numero sia grande, non è il numero in se stesso che costituisce il fattore essenziale. Uguale im­portanza rivestono le altre condizioni, meritali ed emotive. Il japa co­mincia come ripetizione meccanica, ma gradualmente dovrebbe trasfor­marsi in una forma di meditazione e di sviluppo degli strati più profon­di della coscienza.
L’efficacia del japa si fonda sul fatto che ogni jivatma è un micro­cosmo e reca pertanto in sé le potenzialità di evolvere tutti gli stati della coscienza e tutte le energie presenti in forma attiva nel macrocosmo. Vanno applicate tutte quelle forze che possono aiutare la scintilla di­vina entro ciascun cuore umano a tramutarsi in un fuoco ruggente. E lo sviluppo della coscienza ha luogo come risultato dell’azione combi­nata di tutte queste forze, più che della mera ripetizione del mantra. Tuttavia, dev’esservi il mantra per integrare e polarizzare quelle forze, come deve esistere il piccolissimo seme per utilizzare il suolo, l’acqua, l’aria e la luce solare nello sviluppo dell’albero. Non è possibile trat­tare qui il modo di operare del japa, e la maniera secondo la quale esso risveglia le potenzialità del microcosmico jivatma. Potremo semplicemen­te notare che la sua efficacia dipende dalla sua capacità di suscitare sottili vibrazioni entro i veicoli che influenza. Un mantra è una combinazione di suoni, e pertanto rappresenta una vibrazione fisica percettibile all’orec­chio fisico. Ma questa vibrazione fisica ne è l’espressione esterna, e dietro la vibrazione fisica, collegate con essa, esistono vibrazioni più fini, in modo assai simile a quello in cui il denso corpo fisico dell’uomo è la sua manifestazione esterna, connessa con i suoi veicoli più sottili. Questi vari aspetti del vak, o «discorso» vengono definiti vaikhari madhyama, pashyanti e para. Vaikhari è il suono udibile che può far passa­re attraverso gli stadi intermedi fino alla forma più sottile del para vak. Proprio attraverso l’azione di queste forme più sottili del «suono» si ve­rifica lo sviluppo della coscienza, e le potenzialità nascoste divengono poteri attivi. Questo scatenamento delle energie assume un andamen­to preciso secondo la natura specifica del mantra, esattamente come un seme cresce fino a diventare un albero, ma si trasforma appunto in un tipo particolare di albero, secondo la natura del seme.
L’altro mezzo per utilizzare l’energia latente nel pranava è la bhavana. Il termine significa letteralmente «abitare nella mente». Tentiamo di com­prenderne il significato nel contesto attuale. L’oggetto della doppia pra­tica prescritta in questo sutra è di mettersi in contatto con la divina coscienza dell’ishvara. Il japa ha l’effetto di armonizzare i veicoli. Ma è necessario qualche cosa di più per portare quaggiù l’influenza divina e stabilire il contatto con la coscienza divina. Se una corrente elettrica deve passare attraverso una macchina, non occorre soltanto conduttività o capacità di trasmettere la corrente, ma anche voltaggio, cioè la pres­sione che fa scorrere la corrente. Allo stesso modo, per rendere possibile alla coscienza individuale di accostarsi alla coscienza divina, non soltanto occorre l’accordo tra i veicoli, ma anche una forza attivante, un’attrazio­ne che corrisponde al voltaggio nel passaggio della corrente elettrica. Ta­le forza, che stringe insieme i due ‑ il jivatma e il paramatma ‑ può assumere forme diverse. Per esempio, nel bhakti‑yoga, essa assume la forma della devozione intensa o dell’amore. Nel mantra‑yoga, assume la forma di bhavana, ovvero intensa meditazione sul significato del mantra, e sull’oggetto che si cerca di attingere. Tale bhavana non è un processo meramente intellettuale come quello che impieghiamo nel trovare la soluzione di un problema matematico. È un’azione congiunta di tutte le nostre facoltà nel perseguimento di una meta comune. Così, non è qui soltanto presente lo spirito della ricerca intellettuale, ma anche l’ane­lito profondo dell’amante che desidera trovare l’amato, e la volontà dell’hatha‑yogi che intende rompere tutte le barriere che lo separano dall’oggetto della sua ricerca. Questo tipo di bhavana polarizza tutte le nostre energie e facoltà, e determina la necessaria concentrazione finali­stica. Così, gradualmente, le distrazioni che allontanano la mente del­l’allievo dall’oggetto della sua ricerca vengono rimosse, ed egli si trova in grado di volgere all’interno la propria attenzione.

29. Tatah pratyak‑cetanadhigamo ‘pyantaraya‑bhavash ca.
Da ciò (derivano) la scomparsa degli ostacoli e il vol­gersi della coscienza verso l’interno.

In questo sutra Patanjali ha presentato i due risultati che derivano dalla pratica prescritta nel sutra precedente. Anzitutto, il risveglio di un nuovo tipo di coscienza definito pratyak cetana, e in secondo luogo la scomparsa graduale degli «ostacoli».
Cerchiamo anzitutto di comprendere che cosa si intenda per pratyak cetana. Vi sono due tipi di coscienza di natura diametralmente opposta, pratyak e paranga: cioè, coscienza volta verso l’interno e coscienza vol­ta verso l’esterno. Se studiamo la mente dell’individuo comune scopri­remo che essa è rivolta interamente verso l’esterno. È sommersa nel mondo esteriore e si occupa ininterrottamente della processione di im­magini che passano senza tregua nel campo della coscienza. Questa co­scienza volta verso l’esterno è causata dal vikshepa, la proiezione esteriore da parte della mente inferiore di quanto è presente dentro di essa, al centro. Poiché ci occuperemo a fondo del problema del vikshepa trattan­do del sutra successivo, tralasciamo qui questo argomento e cerchiamo di intendere che cosa sia la pratyak cetana. Come abbiamo sottolineato più sopra, la pratyak cetana è la coscienza volta verso l’interno; ovvero la coscienza che si dirige verso il suo centro. Essa è pertanto l’opposto esatto della coscienza volta verso l’esterno, o paranga cetana.
Tutto lo scopo ed il processo dello yoga consistono nel ritrarre la coscienza dall’esterno verso l’interno, poiché il mistero ultimo della vita è celato nel cuore stesso, o nel centro, del nostro essere, e potremo trovarlo soltanto là e in nessun altro luogo. Nel caso dello yogi la tendenza della mente esteriore a precipitare verso l’esterno ed a occuparsi degli oggetti del mondo esteriore va pertanto sostituita gradualmente da una tendenza a ritornare automaticamente alla propria condizione «cen­tralizzata», senza sforzo. Soltanto in queste condizioni essa potrà «con­giungersi», per così dire, con i principi supremi. Ma si può osservare che questa sola tendenza di volgersi verso il centro non è la pratyak cetana, sebbene costituisca uno stadio necessario per conseguirla. L’es­senza della pratyak cetana è il contatto concreto con i principi superiori che nascono dall’irradiazione della personalità in seguito all’influenza di tali stessi principi (atma‑buddhi‑mana). Senza dubbio il contatto è indi­retto, ma possiede sufficiente efficacia e realtà per mettere in grado la personalità di trarne numerosi vantaggi. La forza dell’atman, l’illumina­zione della buddhi e la conoscenza della mente superiore filtrano entro la personalità in misura gradualmente crescente, e le offrono la guida e l’impulso necessari a seguire il sentiero dello yoga. Il contatto diviene diretto soltanto nel samadhi, quando la coscienza abbandona un veicolo dopo l’altro e si incentra in livelli sempre più profondi.
L’altro risultato del japa e della meditazione sul pranava è la scom­parsa graduale degli ostacoli che si incontrano sul sentiero dello yogi. Tali ostacoli sono di diverse specie: impurità e disarmonie nei veicoli, debolezza di carattere, mancanza di sviluppo, e così via. Ma il pranava, come abbiamo visto, tocca il cuore stesso del nostro essere, risveglia nel microcosmo vibrazioni che possono trarre in luce tutte le potenzia­lità e le facoltà latenti che giacciono sopite in esso. Così tutti gli ostacoli, di qualsiasi natura, cedono a questa stimolazione dinamica. Le deficienze vengono sostituite dalla crescita di facoltà corrispondenti o dall’afflusso di potenza ulteriore. Le impurità sono rimosse. Le disarmonie tra i vei­coli si stemperano, ed i veicoli si armonizzano l’uno con l’altro e con la suprema coscienza dell’ishvara. Ha luogo così una rigenerazione com­pleta dell’individualità, una rigenerazione che la rende adatta a seguire il sentiero dell’ashtanga yoga o ishvara‑pranidhana.
È ovvio che uno strumento dall’azione tanto efficace e potente non può venir impiegato in modo casuale e disattento senza invischiare il sadhaka in ogni sorta di difficoltà e di pericoli. È pertanto assolutamen­te necessario considerare con estrema attenzione le condizioni necessa­rie e la loro stretta regolazione. Non è questo il luogo per definire in dettaglio tali condizioni. Basta osservare che tra le più essenziali sono la purezza, l’auto‑controllo, ed un uso estremamente cauto e graduale della potenza. Si potrà pertanto intraprendere utilmente e sicuramente l’esercizio soltanto dopo aver padroneggiato in misura considerevole lo yama e il niyama.
I sette sutra da I,23 a I,29 formano, in una certa misura, una serie distinta che presenta la tecnica del sentiero mistico sul quale l’allievo procede direttamente verso la meta, senza studiare e padroneggiare i pia­ni intermedi che lo separano dall’oggetto della sua ricerca. Su questo sentiero la rinuncia a se stessi è l’unica arma, adottando la quale il japa e la meditazione sul pranava costituiscono l’unica tecnica da impiegare. Il japa e la meditazione volgono la coscienza dell’allievo direttamente verso la sua meta, rimuovono tutti gli ostacoli, e la rinuncia a se stessi fa il resto.


Laya‑yoga o nada-yoga

35. Vishayavati va pravrttir utpanna manasah sthiti­nibandhani.
Anche l’entrata in attività dei sensi (superiori) è utile per determinare la stabilità della mente.

Un ulteriore mezzo che Patanjali indica per rendere stabile la mente è l’assorbirsi di essa in una qualche cognizione sensibile superfisica. Tale cognizione può venir determinata in un certo numero di modi; ad esem­pio, concentrando la mente su certi centri vitali del corpo. Esempio ti­pico di questo metodo è il laya‑yoga, nel quale la mente si concentra sui nada, ovvero suoni supernormali, che possono venir uditi in certi punti situati nel corpo. In realtà, questo metodo di condurre la mente alla quiete è considerato tanto efficace che è sorto un ramo distinto dello yoga, fondato su questo principio.
Non è facile dire quanto lontano quest’unificazione della mente con i nada, che costituisce la base del laya‑yoga, possa condurre il sadhaka nel­la sua ricerca della Realtà. Dato che questo metodo costituisce la base di un ramo dello yoga separato e indipendente, è possibile che alcuni yogi siano stati capaci di compiere notevoli progressi nella propria ri­cerca in base ad esso. Ma è molto probabile che, come numerosi altri sistemi minori dello yoga, presto o tardi il laya‑yoga si fonda con il raja­-yoga, e che sia utile unicamente nella fase preliminare consistente nel ren­dere stabile e tranquilla la mente e nel fornire alla sadhaka un’esperienza diretta di certi fenomeni sopranormali. In ogni modo, l’utilità di questo metodo per il temperamento del vikshepa e per la preparazione della men­te alle fasi più avanzate della pratica yoga è fuori discussione.

36. Vishoka va jyotishmati.
Nonché (mediante) (stati interiormente sperimentati come) sereni o luminosi.

Nel laya‑yoga la mente viene resa stabile assorbendola nell’anahata shabda. Si può raggiungere lo stesso obbiettivo ponendo la mente in con­tatto con altre sensazioni o stati di coscienza sopranormali. La costitu­zione dell’uomo, comprendendo tanto il corpo fisico che quello superfi­sico, è estremamente complessa, ed esistono numerosissimi metodi per ottenere un contatto parziale tra il veicolo inferiore e quelli superiori. Alcuni fra tali metodi dipendono da ausilii puramente artificiali; altri dal japa di un mantra, ed altri ancora da un certo speciale tipo di medita­zione. Quale tra tali metodi verrà adottato da un sadhaka dipenderà dai samskara che egli reca con sé dalle esistenze precedenti, nonché dalla capacità e dal temperamento del maestro che lo inizia a tali pratiche pre­liminari. Come risultato di tali esercizi il sadhaka potrà cominciare o a scorgere dentro di sé una luce sconosciuta, o a percepire un senso pro­fondo di pace e di tranquillità. Esperienze che, sebbene in se stesse non possiedano grande significato, possono catturare la mente con il loro potere di attrazione e gradualmente determinare la condizione di stabi­lità che si ricercava.
Tuttavia il sadhaka deve tener presente lo scopo di tali esercizi. In primo luogo, non dovrà conferir loro importanza e significato indebiti, né immaginare di star compiendo grandi progressi sul sentiero dello yoga. Sta semplicemente apprendendo l’abc della scienza yoga. In secondo luo­go, non dovrà permettere che tali esperienze divengano una pura fonte di soddisfazione emotiva e mentale. Molte persone cominciano ad usa­re tali pratiche come un narcotico, una via di evasione dallo sforzo e dalla tensione della vita quotidiana. Se si adottano atteggiamenti errati come questi, tali esercizi divengono spesso un impedimento, anziché un ausilio nel sentiero percorso dal sadhaka.

Torniamo al suono



 VISIONE DIVINA TRAMITE IL SUONO DIVINO

La modificazione non si prolunga al di là e non si costringe al di qua, perché è la misura del suono che la produce … E non può esistere se non si ha il suono che l’ha prodotta: è simile alla traccia lasciata nell’acqua, che non si forma prima che tu abbia immerso il corpo e non rimane quando lo ritrai.
Per Agostino, la percezione della musica (Musica est scientia bene modulandi, la musica è la scienza del misurare correttamente secondo un ritmo) si verifica mediante l'actus sentiendi, ossia un'attività dell'anima stessa che, presente in ogni parte del corpo, è continuamente attenta ad ogni minima modificazione che in lui avviene e che è provocata da oggetti esterni. Mediante la musica e la sensazione, l'uomo giunge a scoprire, nella sua stessa anima, l'esistenza di principi immortali che derivano direttamente da Dio.
Dal “De musica di Sant’Agostino”  

Torniamo al Suono; allontanandoci dalla vibrazione originaria e creatrice ci siamo persi e ci siamo scollegati dalla nostra fonte di energia spirituale.

Tornare al suono come fonte di equilibrio e di benessere, perché l'essere umano è capace di suonare e risuonare indipendentemente dal fatto che sappia cantare, suonare o che conosca la musica.

Le nostre risonanze appaiono evidenti nella voce, che cambia frequenza in base agli stati d'animo, alle emozioni e alle sofferenze fisiche, così come è la nostra voce, per prima, a evidenziare gioia e benessere.

Lo Yoga del Suono è una via armonizzante per il corpo, la mente e lo spirito e la pratica del canto  dei mantra, a detta di tutti i Maestri, è una delle pratiche principali.

Le antiche scritture vediche definiscono i mantra non solo come una mera combinazione di suoni bizzarri, ma come la forma sottile della divinità che li presiede, e il vero scopo della meditazione attraverso il mantra è quello di comunicare (relazionare) con la divinità che presiede quel particolare mantra.

arthashrayatvam shabdasya – S.Bh. (3.26.33) Nella concezione Vedica il suono viene descritto non solo come una vibrazione creata dalla interazione di due oggetti. Ma come ciò che dà l'idea di un oggetto. "artha-ashraya" "il ricettacolo del significato". Non vi è distinzione tra l'oggetto e il suono. Il suono contiene in sé tutte le qualità dell'oggetto – “soggetto”.